31 Gennaio 2025

Cittadinanza digitale, oltre le fake news

Cosa hanno in comune Vales, il Myanmar, la Brexit e Pallywood? Le fake news. Andiamo in ordine: Vales, Macedonia del nord, industria delle fake news per le elezioni americane del 2016, secondo quanto rilevato da Cambridge University Press. Andiamo ora in Myanmar, nel 2017: la Missione internazionale indipendente di accertamento dei fatti delle Nazioni Unite sul Myanmar ha concluso che il “ruolo dei social media [è stato] significativo” nelle atrocità commesse in un paese in cui “Facebook è Internet”.

Avviciniamoci ai giorni nostri: Israeele – Palestina, o meglio la guerra parallela on line. Gli account pro-israeliani sui social media stanno usando il termine “Pallywood”, composto di Palestinese ed Hollywood, per definire i video girati dai palestinesi durante il conflitto con Israele. Il termine entrò in uso nel 2000 dopo l’uccisione di Muhammad al-Durrah, nella Seconda Intifada, fu inventato dagli opinionisti israeliani per rivelare la falsità dei video che mostrano la violenza israeliana o la negazione delle sofferenze dei palestinesi.

E cosa dire della Brexit e della disinformazione diffusa durante e dopo il referendum? Una per tutte, la fake news secondo la quale il Regno Unito avrebbe ripreso 350 milioni di sterline a settimana una volta uscito dall’UE, somma destinata al Servizio Sanitario Nazionale. Come pretendere dunque che i ragazzi non siano coinvolti dalle fake news se noi siamo i primi carnefici- vittime di questo sistema? Si tratta forse di un “disturbo dell’informazione” del XXI secolo, una manifestazione contemporanea da analizzare?

In realtà disinformazione, cattiva informazione e propaganda sono note da sempre: il primo Tweet, si potrebbe dire, fu quello lanciato da Ottaviano per infangare Antonio che aveve messo gli occhi su Cleopatra. Messaggi brevissimi scritti sulle monete dove Antonio veniva definito come il burattino di Cleopatra. In un certo senso, Ottaviano divenne Augusto, il primo imperatore romano, anche grazie alle fake news.

Tutto ciò si moltiplicò naturalmente con la stampa di Gutenberg nel 1493. Un altro salto temporale ed arriviamo alla prima bufala giornalistica su larga scala, “The Great Moon Hoax”, nel 1835 quando il New York Sun pubblicò sei articoli sulla scoperta della vita sulla luna. L’autore, prima anonimo e poi rivelatosi Richard Adams Locke, voleva fare una satira ma invece fu presa per vera e tradotta in varie lingue.

Secondo S. Waisbord le fake news sono “sintomatiche del crollo del vecchio ordine delle notizie e del caos del pubblico contemporaneo comunicazione” ma ci sono anche studiosi come C. Wardle e H. Derakhshan che sostengono come non si debba dire fake news, termine ormai troppo politicizzato, ma suggeriscono una diversa categorizzazione: misinformation (diffusione di informazioni false senza intenzione di ingannare), disinformation (diffondere informazioni false con l’intento di ingannare) e malinformation (diffondere informazioni vere informazioni con l’intento di ingannare).

E’ di questi giorni la notizia di una ricerca dell’University College London, pubblicata su ‘Plos’, per analizzare “i processi socio-cognitivi associati a due delle questioni più urgenti della salute pubblica globale nell’era digitale contemporanea: l’allarmante diffusione di notizie false e il crollo della fiducia collettiva nelle fonti di informazione”. Gli scienziati hanno portato avanti due studi per “analizzare il ruolo della fiducia epistemica nel determinare la capacità di riconoscere le notizie false da quelle vere e la suscettibilità al pensiero cospirativo”. Risultato: la sfiducia nell’informazione ufficiale e l’essere creduloni si associano a teorie assurde o complottistiche su diverse materie, e portano a credere alle fake news. L’antidoto? Invertire il tasso di sfiducia e di ingenuità delle persone. In altre parole: investire in scuola e cultura. Non a caso Valditara è il ministro più bersagliato dalle fake news usate come mezzo per tentare di fermare il cambiamento che sta portando avanti nella scuola.

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